sabato 16 gennaio 2010

Football


Sono stato bambino in Lucania negli anni ottanta. Scanzano Jonico, una piccola città sul mare. Per me Scanzano voleva dire libertà assoluta, a patto che mi presentassi all'uscio all'ora di pranzo, all'ora di cena e per andare a dormire. Era un tempo meraviglioso, incantato, senza aspettative, senza pensieri, senza programmi. Al centro di tutto non c'erano ancora le ragazze e nemmeno la musica, ma il calcio, e dai dodici anni in su, solo il calcio. I nostri eroi erano i campioni del mondo dell'82. Andavamo al campo sportivo a vedere gli allenamenti della squadra dei grandi che militava in promozione, ricordo di quei pomeriggi l'odore forte delle pomate e la voglia di poterla usare un giorno anch'io. Il mister era di pochissime parole, rideva poco, aveva gli occhi di ghiaccio alla Clint Eastwood, e questo aumentava il suo carisma per noi ragazzini. Sapeva qualcosa che noi non sapevamo e anche solo stare lì a guardare era un modo per dorare il nostro tempo. Lui ci lasciava stare lì intorno a capannello, non dava mai l'impressione di essere disturbato. Se qualcuno faceva una domanda, rispondeva tecnico e breve. Poi alcuni anni dopo, quando io facevo parte di quella squadra e vivevo quello spogliatoio, osservavo i bambini che ci osservavano e si inebriavano al profumo di quelle pomate... Il calcio entra negli occhi. Quando succede è irreversibile, puoi venire da una provincia italiana che mai è entrata nell'almanacco della panini, ma quando il calcio ti entra negli occhi non puoi più scappare. E noi ragazzini intorno a quel campo non eravamo diversi da quei ragazzini scalzi che affollano le spiagge di Rio o i campi dei villaggi africani. Il calcio ci fa impazzire perché assomiglia a qualcosa che hai vissuto già e che hai perduto. Il calcio è lì, nel deserto della nostra infanzia infinita, nei poster dei ragazzini diventati grandi, nell'idea di vivere la vita nella visione, nella passione, nella gioia di una partita di calcio.